Ilva
Vedremo negli occhi chi cerca la giustizia, declinata nella concretezza delle giornate di un operaio. La sicurezza, la salute, il lavoro stabile, la solidarietà, il futuro: parole casuali e ovvie per tanti. Non qui. Possono non stare insieme, possono contrastare l’una con l’altra. Qui incontreremo chi cerca ponti fra l’una e l’altra.
L’Ilva è la più grande acciaieria d’Europa e i suoi problemi riguardano in particolare il suo stabilimento maggiore, quello di Taranto, dove le emissioni inquinanti del sito produttivo hanno causato negli ultimi decenni la morte di un imprecisato, ma molto elevato, numero di operai e abitanti della città pugliese. Il caso Ilva prende avvio nel 2012 quando la magistratura dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. In realtà le prime indagini e le prime azioni legali iniziano molti anni prima, già dagli anni ’80. Le violazioni e i problemi gravi legati all’inquinamento iniziano a essere noti negli anni successivi. Quello provocato dall’Ilva di Taranto è uno dei più gravi disastri sanitari e ambientali della storia italiana ed europea. Nel 2010, secondo le perizie del tribunale e le dichiarazioni dell’Ilva, sono state immesse nell’ambiente circostante 4.159 tonnellate di polveri, 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa. A Taranto, secondo i dati del registro Ines, negli ultimi anni, è stata immessa in atmosfera il 93% di tutta la diossina prodotta in Italia insieme al 67% del piombo.
All’Ilva e per l’Ilva si muore per l’inquinamento dell’aria, della terra, dell’acqua, si muore in tutta la città, ma si muore specialmente ai Tamburi, il quartiere “avvelenato” a ridosso dello stabilimento, simbolo dell’eterno dilemma lavoro/salute, o meglio lavoro/vita che dilania la città. Prima, negli anni Cinquanta, la gente ci andava per svagarsi nella natura, per passeggiare e respirare l’aria pulita vicino ai resti dell’acquedotto romano; oggi ai Tamburi ci nasci o ci risiedi, ma non ci vieni.