Intervista a Sandro Mazzola – Frequentava l’oratorio Salesiano

Si riporta qui di seguito l’intervista a Sandro Mazzola, proveniente da “La Repubblica” fatta per i cent’anni dalla nascita di suo padre: Valentino Mazzola. Intervista a cura di Fabrizio Turco.

Sandro Mazzola, si sarà anche lei oggi al Filadelfia alla cerimonia per i cent’anni dalla nascita di suo papà Valentino?

«Sì, ci sarò. E sono sicuro che, come al solito, entrare al Fila mi toglierà il fiato. È già qualche giorno che sono emozionato».

Ci saranno anche i suoi nipoti, compreso Valentino junior?

«Forse sì, ma decidono i miei figli. Compreso il fatto di poter passare dal Cimitero Monumentale di Torino. Mi piacerebbe portare i miei nipoti al Fila in primavera, quando farà meno freddo».

Che cosa racconta di papà ai nipoti?

«Ogni tanto faccio veder loro i filmati del bisnonno. Ma solo quando me lo chiedono; il che però accade spesso».

Che ricordo le viene se pensa a papà?

«Il più vivo è quando mi portava per mano a centrocampo prima della partita. Avevo un po’ di timore di tutta quella gente, lui mi guardava e sorrideva. Poi, quando la partita stava per iniziare, correvo verso la panchina e restavo lì a guardare papà».

E del Valentino Mazzola giocatore invece che cosa ricorda?

«Mi ricordo papà che segna di testa. Non era altissimo, ma che stacco aveva… Saltava, gli altri sparivano e lassù c’era solo lui che colpiva e la buttava dentro».

Se le dico via Torricelli che cosa le viene in mente?

«Ricordo che andavo sempre in giro con un bastone, chissà perché. Sotto casa c’era l’oratorio dei Salesiani, la Crocetta: papà mi veniva a prendere perché io non volevo mai smettere di giocare. E poi il panettiere all’angolo: quando avevo fame mi regalava un panino».

Oggi cosa le è rimasto di suo papà?

«Ricordo la sua mano. La ricordo benissimo, come fosse oggi. E ricordo corso Vittorio, il bar di Gabetto e Ossola, e tutta la gente che lo assediava a caccia di un autografo. Io avevo un po’ di paura e mi aggrappavo alla sua mano grande».

Che effetto le ha fatto il confronto continuo con il mito?

«All’inizio fu durissima. I primi anni all’Inter, dopo la partita, tornavo a casa a piedi per risparmiare le 25 lire del tram. E sentivo le parole dei tifosi: ‘Dove vuole andare quello lì, non è mica come suo papà…»

Come ha scoperto la scomparsa del papà?

«Dopo la tragedia di Superga fui portato a Cassano: avevo appena conosciuto mio fratello Ferruccio, e nessuno mi diceva nulla. Papà ha una partita, papà è in tournèe, mi raccontavano per tenermi buono. Ma papà non c’era mai. Poi colsi alcune parole che mia mamma pronunciò ad una sua amica ed iniziai a capire: fu la disperazione».

Che incubi le ha lasciato la tragedia di Superga?

«Di sicuro la paura di volare. All’Inter lo sapevano e tante volte mi hanno permesso di prendere il treno anziché l’aereo».

Cosa ricorda della sua prima volta al Fila da giocatore?

«Fu una grande tristezza. A parte il magazziniere Zoso che mi fece un sacco di feste, non mi accolse nessuno. E io ci rimasi molto male».

Aver fatto il dirigente del Toro in un certo senso ha chiuso il cerchio della sua storia sportiva?

«In un certo senso sì. Però mi è mancato non essere mai riuscito a indossare la maglia numero dieci del Toro».