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Animazione Missionaria – Aspettative, paure e speranze dei tre giovani missionari in partenza

Arrivano da Missioni don Bosco gli approfondimenti riguardanti il percorso, le motivazioni e le speranze che i nostri missionari stanno oramai vivendo nelle rispettive terre missionarie di: Nigeria, Romania e Benin. Un percorso di formazione impegnativo scandito da nove appuntamenti, avviatisi da ottobre 2018 sino a giugno, e gestiti dall’equipe di Animazione Missionaria dell’Ispettoria ICP, guidata da Don Theophilus Ehioghilen, Don Fabio Mamino e Suor Carmela Busia.

In particolare, Missioni don Bosco, ha avuto la possibilità di porre qualche domanda a tre dei giovani che sono partiti per l’Africa e l’Europa:

  • Michele D., “veterano” fra i partenti, è passato anche lui molto rasente a questa esperienza missionaria ma non aveva mai oltrepassato il sottile diaframma che divide il parlarne e il sostenerne la progettazione per altri e il viverla in prima persona.  Sta vivendo l’esperienza in Romania;
  • Simona P., si dice “adottata” da una decina d’anni da un salesiano, don Enrico Lupano, che l’ha accompagnata a rendersi conto della dimensione missionaria. Sta vivendo l’esperienza nel Benin;
  • Silvia M., è la più giovane del piccolo gruppo che incontriamo a Missioni Don Bosco. Dopo la maturità, lo scorso anno, partecipò al campo scuola riservato ai nuovi universitari. Sta vivendo l’esperienza in Nigeria.

Per leggere le interviste complete:

Missioni Don Bosco: in arrivo il nuovo numero di “Terre lontane” – luglio 2019

Per il mese di luglio, in arrivo il nuovo numero del mensile d’informazione di Missioni Don Bosco intitolato “Terre Lontane“, dedicato alla 150° partenza missionaria e al sinodo sull’Amazzonia.

In anteprima, l’editoriale di Giampietro Pettenon, presidente di Missioni Don Bosco:

Possiamo dirci fortunati a essere partecipi della 150a partenza dei salesiani per le terre di missione. Un traguardo che molti – in primis lo stesso Don Bosco – hanno sognato ma che, nella precarietà della Storia, non poteva neanche essere immaginato con certezza. Eppure da quando è partita la prima spedizione dei giovani cresciuti a Valdocco con destinazione Patagonia, il mandato missionario è stato ripetuto 149 volte fino a oggi. Domenica 29 settembre 2019 saremo presenti nella basilica di Maria Ausiliatrice, da cui tutto è partito, per condividere l’emozione di quell’evento.

Questa partenza è alla vigilia del Mese missionario straordinario voluto da papa Francesco. I salesiani hanno risposto intensificando l’invito a nuovi “banditori e ministri” del Vangelo di lasciare la propria terra e le proprie consuetudini… per rendersi disponibili dove e come lo Spirito Santo ispirerà la loro azione e la loro preghiera. Missioni Don Bosco ascolterà ciò che emergerà dal Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia che si svolgerà quello stesso mese. La condizione umana e spirituale dei popoli che vivono in quella foresta (sempre più circoscritta dallo sfruttamento economico e dalla violenza sull’uomo e sulla natura) riguarda l’intero pianeta. Avremo tutti modo di migliorare il nostro sguardo sul futuro e sulla sua evangelizzazione nel Terzo Millennio.

 

Giornata del bambino africano. Don Felice Molino: vera urgenza è educare il cuore

In occasione della Giornata mondiale del bambino africano che si festeggia ogni 16 giugno, è stata pubblicata su Vatican News la testimonianza di don Felice Molino, missionario salesiano da 38 anni in Kenya. Di seguito si riporta  l’articolo dedicato e il video dell’intervista a don Molino realizzato per Missioni Don Bosco.

“C’è bisogno di tutto, dall’istruzione al cibo, dalle medicine ai vestiti, ma prima di ogni cosa bisogna educare il cuore, altrimenti muore il mondo”

Cecilia Seppia – Città del Vaticano

Era il 16 Giugno 1976 quando a Soweto, sobborgo di Johannesburg, nacquero violenti scontri tra gli studenti neri e la polizia segregazionista del National Party, allora al governo. Il motivo della protesta studentesca fu l’approvazione di un decreto che imponeva a tutte le scuole in cui erano segregati i nativi africani di utilizzare l’afrikaans, la lingua dei bianchi segregazionisti, come lingua paritetica all’inglese. Ma questo era solo l’ultimo episodio di una lunga lista di divieti e imposizioni. Così gli studenti si organizzarono e scesero in piazza. Nelle prime file del corteo campeggiava il cartello: “Non sparateci, non siamo armati” e invece la polizia in assetto antisommossa, cominciò a lanciare gas lacrimogeni per disperdere la folla. Qualche ragazzino reagì con il lancio di pietre e gli agenti risposero col fuoco uccidendo sul colpo quattro di loro, fra cui il tredicenne Hector Pieterson divenuto poi simbolo della violenza dell’apartheid. Le violenze continuarono fino all’aprile del 1977. Una commissione d’inchiesta anni dopo accertò che morirono 575 persone, ma fu proprio dopo le proteste che il governo autorizzò le scuole ad insegnare nella lingua che volevano. Per onorare i ragazzi e le ragazze massacrate durante quell’anno, dal 1991, il 16 giugno viene celebrato – dapprima dall’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) e poi dall’intera famiglia delle Nazioni Unite – come un giorno per richiamare l’attenzione sulle condizioni di vita dei bambini e dei ragazzi nel Continente.

I dati oggi
Stando ai dati Unicef oggi sono almeno 45,5 milioni i bambini nell’Africa Subsahariana che non frequentano la scuola e molti di questi muoiono prima di aver compiuto i cinque anni di età a causa di malattie spesso facilmente curabili o per denutrizione. Attraverso investimenti strategici per la sopravvivenza e il benessere dei piccoli, anche Paesi con risorse limitate – come il Malawi – sono riusciti a ridurre notevolmente i tassi di mortalità infantile e negli ultimi anni si registra anche un miglioramento della frequenza scolastica, per esempio in Benin, Etiopia, Mozambico e Tanzania ma molto resta ancora da fare.

Educare il cuore della gente
L’appello ai governi e alle istituzioni resta doveroso, ma secondo don Felice Molino, missionario salesiano che da 38 anni vive in Kenya, per prima cosa c’è bisogno di educare il cuore della gente perché cresca la sensibilità e il desiderio di aiutare l’altro, soprattutto se è un minore, vittima innocente, a cui è stata rubata l’infanzia, la dignità, ogni tipo di diritto, non solo quello all’istruzione. Don Felice, che collabora con gli altri missionari al Bosco Boys di Nairobi, dove vengono accolti e allevati i bimbi di strada, si porta dietro un bagaglio di storie incredibili che ci racconta con il nodo in gola. Come quella di Ana che oggi è una donna adulta, mamma felice di un bimbo bellissimo, ma ha vissuto l’inferno.

Il fenomeno dei bambini di strada
“Quello dei ragazzi di strada è un fenomeno che tocca un po’ tutto il mondo, ma soprattutto le grandi città dell’Africa”, afferma don Felice. “A Pasqua, prosegue abbiamo distribuito cibo nel Parco Nazionale di Nairobi a 1500 bambini, con questa suora che impavida sfidava le autorità che li voleva cacciare perché sono considerati una vergogna. Molti fuggono dalle proprie famiglie. La cosa che mi ha impressionato è stato vedere i loro volti sfregiati, feriti dalle botte che prendono, sia da chi li caccia via di casa, sia dai capi che li sfruttano. E poi la sporcizia in cui vivono, il sudiciume dei vestiti… Sono situazioni di degrado e grande abbandono con cui l’infanzia africana fa i conti tutti giorni”.

Carceri, malnutrizione, sanità
“L’altro problema grave problema – afferma il missionario salesiano – riguarda le carceri minorili. A Natale sono andato a celebrare la Messa in uno di questi carceri e l’avvocato che difende questi ragazzini mi ha detto che nessuno di loro proviene da una famiglia ‘normale’. Tutti quanti, guarda caso, provengono dalle baraccopoli di Nairobi. Allora una persona si chiede: ‘Come mai? È perché il Signore ha creato tutti cattivi quelli che andranno a finire nelle baraccopoli o è piuttosto forse perché ‘solo’ quelli sono coloro che posso essere pescati dalla polizia? E invece i figli delle famiglie bene non andranno mai a finire in carcere?. Quindi c’è una diseguaglianza grandissima. Poi si passa a quella che è l’alimentazione dei bambini. Lì il problema è molto più grave. Se si pensa che l’alimentazione base nelle scuole è fatta di granturco e fagioli, polenta … In moltissime scuole sono internati. È chiaro che non è sufficiente per dei bambini e dei ragazzi che devono affrontare giornate di studio. Per non parlare poi del problema della sanità. Ho frequentato ospedali dove il bambino è a letto insieme a due adulti. Una volta sono andato e c’era un bambino di strada che moriva praticamente dopo l’intervento per tumore al cervello. Ho detto: ‘Come mai questo bambino è lì immerso nella pipì e nessuno fa niente? Mi hanno risposto: Non c’è bisogno di far niente, tanto lui sta morendo e non si accorge nemmeno di quello che gli succede”.

Hubert Twagirayezu – Testimone diretto del progetto Palabek in Uganda

In previsione del Concerto di Natale in Vaticano avremo ospite a Torino, da lunedì 10 a giovedì 13 dicembre, il salesiano p. Hubert Twagirayezu impegnato a coordinare l’impegno nel campo profughi di Palabek in Uganda, che ospita oltre 40.000 profughi migrati dal Sud Sudan.
Si tratta di uno degli impegni più consistenti e significativi dalla Congregazione che, nel cuore di questo mega-villaggio accresciutosi attorno al suo nucleo originario nel volgere di pochi anni, porta l’attenzione educativa verso i più piccoli e gli adolescenti, proponendo ai più grandi una formazione professionale e l’avvio di attività artigiane.

A metà gennaio arriverà a Palabek il container partito dall’Italia lo scorso mese di novembre con il necessario per aprire una nuova scuola-officina che insegni ai giovani i mestieri della meccanica e dell’agricoltura di base. Le necessità di manutenzione nel piccolo-grande cosmo dei rifugiati richiede abilità e strumenti non presenti al momento, mentre la disponibilità di appezzamenti di terreno potrebbe contribuire all’autosostentamento alimentare.

Missioni Don Bosco ha “sposato” questo progetto come impegno da proporre ai suoi sostenitori in occasione delle festività natalizie 2018, e per questa ragione lo ha messo al centro dell’evento musicale che permetterà di arrivare al grande pubblico.

La presenza di p. Hubert Twagirayezu in Italia queste settimane per trovare sostegni finanziari al “progetto Palabek” ci sembra una opportunità anche per i giornalisti che desiderino dare conto di un fenomeno che spesso viene oscurato dai dati dei flussi verso l’Europa: quello della grande migrazione interna all’Africa a seguito di guerre, carestie, minacce politiche e cambiamenti climatici.

Lo stesso salesiano potrà testimoniare della ricettività dei giovani sudanesi costretti a vivere lontano dalle loro terre eppure raggiunti da un intervento educativo che contribuirà a dare una direzione diversa al loro futuro.

 

Concerto di Natale
Missioni Don Bosco
Hubert Twagirayezu

“Stop tratta”: così i Salesiani contrastano la migrazione illegale dall’Africa

Si segnala la notizia pubblicata da La Stampa, in data 27 settembre 2018, a cura di Cristina Uguccioni, sul progetto mandato avanti dalla onlus torinese, Missioni Don Bosco, intitolato “Stop Tratta”: questo si propone di informare capillarmente chi intende emigrare dall’Africa sub-sahariana per ragioni economiche, dei gravi rischi che il viaggio comporta e offrire opportunità di lavoro a chi decide di restare in patria.
A seguire l’articolo.

«Siamo consapevoli che il nostro progetto sia una goccia nell’oceano ma se non ci fosse – come diceva madre Teresa di Calcutta – l’oceano avrebbe una goccia un meno. Noi non vogliamo far mancare la nostra goccia». Così dice a Vatican Insider Giampietro Pettenon, 53 anni, salesiano, presidente di Missioni don Bosco, la onlus torinese che sostiene i missionari salesiani nel mondo. La “goccia”, il progetto cui fa riferimento, è denominato Stop Tratta: si propone di informare capillarmente chi intende emigrare dall’Africa sub-sahariana per ragioni economiche dei gravi rischi che il viaggio comporta e offrire opportunità di lavoro a chi decide di restare in patria: «Il progetto è cominciato nell’autunno del 2015», racconta Pettenon: «Nel giugno di quell’anno Papa Francesco venne in visita a Torino e, incontrando la famiglia religiosa salesiana, parlò della “vocazione alla concretezza” dei figli e delle figlie di don Bosco. Inoltre, durante quella visita, manifestò le sue preoccupazioni per la sorte di migliaia di giovani che cercavano di raggiungere l’Europa rischiando la vita. Ci sentimmo interpellati da quelle parole e capimmo di dover agire per offrire alle giovani generazioni africane un’alternativa concreta e credibile all’emigrazione illegale. Così demmo vita a Stop Tratta chiedendo ai missionari salesiani presenti in Africa la disponibilità a portare avanti il progetto nelle loro zone di residenza: noi, in collaborazione con il Vis (Volontariato internazionale per lo sviluppo) li avremmo supportati economicamente fornendo anche consulenza e attrezzature».

La fase dell’informazione 

Il progetto, che ha durata quinquennale, coinvolge 14 opere salesiane in sei Paesi – Etiopia, Ghana, Senegal Mali, pettenonNigeria, Liberia – e prevede tre fasi. La prima, quasi sostanzialmente conclusa, è quella informativa: migliaia di giovani e di genitori – attraverso incontri nelle parrocchie, depliant, brevi video, programmi radiofonici promossi dai missionari – sono stati informati dei molti rischi cui i ragazzi sono esposti durante il viaggio verso l’Europa e le difficoltà che incontrano una volta giunti alla meta. «Nonostante i molti mezzi di informazione presenti anche in Africa, le persone spesso ignorano la pericolosità di questi viaggi», sottolinea Pettenon. «I ragazzi, appena giungono in Europa, telefonano alle famiglie senza raccontare i soprusi e le brutali violenze subite; ne provano vergogna. Nei villaggi si sa solo che ce l’hanno fatta: così molti decidono di seguirli. Inoltre in questi Paesi operano spregiudicate agenzie che offrono ai ragazzi viaggi “all inclusive”, presentandoli come viaggi sicuri e comodi. I prezzi sono piuttosto elevati e le famiglie si indebitano anche pesantemente pur di assicurare ai figli un futuro dignitoso. Noi spieghiamo ai genitori che queste proposte sono una truffa: quando lo scoprono iniziano a dissuadere i figli dal partire».

 

Le queen mothers del Ghana 

In questa opera di informazione i missionari salesiani hanno potuto contare sull’appoggio dei governi e delle autorità locali: «In Ghana si è rivelato prezioso anche l’aiuto delle queen mothers, le figure più autorevoli dei villaggi, cui tutti fanno riferimento: queste donne hanno dato la loro benedizione al progetto sollecitando le famiglie a prestare ascolto ai missionari».

 

La formazione 

Attualmente è in corso la seconda fase del progetto, quella formativa: prevede l’offerta di corsi professionali di breve durata (da uno a nove mesi): i missionari salesiani hanno individuato le figure professionali maggiormente richieste nel loro territorio in modo da avviare i corsi più adatti: dall’agricoltura all’allevamento, dall’idraulica alla meccanica, dalla sartoria all’informatica. «Tenuti da insegnanti ed educatori – prosegue Pettenon – i corsi sono circa mille e stimiamo possano coinvolgere complessivamente 18mila giovani e madri: in molti Paesi africani sono infatti le donne il vero punto di riferimento della famiglia, sono loro che, lavorando duramente, mantengono i figli. Ad esempio, in Etiopia un gruppo di signore ha seguito un corso di allevamento dei maiali che ora sono diventati “le banche delle famiglie”: una volta macellati e venduti, questi animali assicurano all’intero nucleo familiare il denaro necessario a vivere decorosamente».

 

Il lavoro, finalmente 

Conclusa la formazione – ed è la terza fase del progetto – i giovani e le donne si possono rivolgere ad alcune banche locali per ottenere il finanziamento necessario ad acquistare gli strumenti necessari ad avviare una piccola attività. In passato, dice Pettenon, i missionari salesiani avevano già promosso il microcredito, senza molto successo poiché spesso le persone – contando sulla benevolenza dei sacerdoti – non restituivano il prestito ricevuto impedendo quindi di assicurare questo sostegno economico ad altre famiglie. Così, nell’ambito del progetto Stop Tratta, si è voluto coinvolgere il sistema creditizio locale: sono le banche che, ricevuti dai salesiani i finanziamenti, provvedono a erogarli. «Sino ad oggi, grazie alla generosità dei nostri benefattori, molti giovani e donne hanno iniziato piccole attività: ci sono ragazzi che si dedicano alla raccolta e al commercio dei fichi d’India, altri che hanno costruito serre per la coltivazione di ortaggi, ci sono madri che hanno imparato a cucinare piccoli dolcetti che poi vendono nei mercati e ragazzi che lavorano come idraulici ed elettricisti nelle grandi città. In Ghana quattro giovani sono diventati mentor farmers: non solo hanno avviato una attività agricola ma offrono stages agli studenti dei nostri corsi professionali».

 

I migranti di ritorno 

Nel progetto Stop Tratta sono coinvolti anche migranti che tornano nella loro patria: «Tre giovani senegalesi, emigrati illegalmente in Italia alcuni anni fa, hanno seguito un corso professionale presso il centro d’accoglienza siciliano gestito dall’associazione salesiana Don Bosco 2000: sono diventati mediatori culturali e hanno iniziato a lavorare con noi salesiani», conclude Pettenon. «A loro abbiamo proposto di fare ritorno in Senegal e affiancare i missionari nella gestione dei corsi professionali, in qualità di educatori. Hanno accettato».

“Scelte politiche sbagliate, uso scellerato delle risorse naturali”: La crisi umanitaria del Venezuela

Un intenso programma a Valdocco (Torino) dei vescovi salesiani Jonny Eduardo Reyes e Pablo Gonzalez, invitati da Missioni Don Bosco il 18 e 19 settembre per dare testimonianza sulla drammatica situazione del Venezuela. Dopo il loro incontro con il Papa nella visita ad limina apostolorum, insieme con i confratelli della Conferenza episcopale venezuelana, hanno partecipato a due momenti pubblici: il primo, martedì a Maria Ausiliatrice per una celebrazione eucaristica, il secondo, mercoledì in Sala Sangalli per il convegno “RINVOLUZIONEVENEZUELA”.
La loro presenza ha dato un’occasione non trascurabile di visibilità anche alla piccola ma crescente comunità di Venezuelani emigrati negli ultimi anni in Piemonte a seguito dell’esodo, del quale peraltro si registrano solo pochi riscontri nei nostri media nazionali.

La crisi umanitaria del Venezuela «non è il frutto del caso o del destino avverso». E’ piuttosto il risultato di scelte politiche sbagliate e di un uso scellerato delle risorse naturali: «era una nazione ricca con prospettive di grande futuro, ma è stata impoverita fino all’estremo e adesso vive una situazione di miseria che peggiora di giorno in giorno e questo governo continua a negare tutto».

Queste le parole di monsignor Jonny Eduardo Reyes, vescovo di Puerto Ayacucho (Amazzonia), durente il suo intervento alla conferenza dal titoloRinvoluzione Venezuela, dal sogno bolivariano all’incubo della crisi”organizzata da Missioni don Bosco Valdocco onlus, a Torino.

Rivivi la diretta Facebook dell’evento

Rinvoluzione Venezuela: dal sogno bolivariano all’incubo della crisi

Mercoledì 19 settembre a #Valdoccohttps://news.missionidonbosco.org/rinvoluzione-venezuela-dal-sogno-bolivariano-allincubo-della-crisi

Publiée par Missioni Don Bosco ONLUS sur Mercredi 19 septembre 2018

La denuncia viene da monsignor Jonny Eduardo Reyes, vescovo di Puerto Ayacucho (Amazzonia), intervenuto ieri alla conferenza dal titolo Rinvoluzione Venezuela, dal sogno bolivariano all’incubo della crisi, organizzata da Missioni don Bosco Valdocco onlus, a Torino. Con monsignor Reyes, di ritorno da una visita apostolica dal Papa, anche mons. Pablo Gonzalez, vescovo di Guasdalito, che ha parlato della ferita profonda inflitta alla società venezuelana, costretta a vivere una quotidianità fatta di stenti, economia informale e laddove è possibile di emigrazione.

La popolazione venezuelana è letteralmente alla fame. Fa eccezione quel 15% che gode dei privilegi economici e delle protezioni politiche, e che sostiene senza riserve il governo in carica avendo anche il dominio degli organi di informazione. Due Venezuela, uno dei quali completamente al di fuori della realtà e insensibile alla sofferenza di milioni di persone. La manipolazione dell’opinione pubblica arriva al punto di negare l’esodo di massa (un decimo del 30 milioni di abitanti del Venezuela) verso i Paesi confinanti e da lì – chi può – verso nord America ed Europa.

«Il mercato nero – ha detto Gonzalez – la speculazione e il proliferare di attività economiche illegali sono diventate oggi la principale attività di chi è rimasto in Venezuela e per sopravvivere non può fare altro».

«Lo stipendio di un operaio equivale a circa un euro e 50 al mese, mentre una bottiglia d’acqua costa l’equivalente di 5 centesimi di euro; gli alimenti vengono rivenduti sul mercato nero e gli effetti sono simili a quelli di una guerra».

«La svalutazione della moneta e l’inflazione rendono carta straccia il bolivar, che ad oggi vale 0,014 euro».

Pur rimanendo strettamente sul terreno dell’azione pastorale, i vescovi venezuelani hanno dato conto di quel che vedono e delle iniziative solidali che hanno intrapreso con le loro comunità. Progetti che mirano al soccorso immediato di chi chiede aiuto alimentare (sono nate le “ollas solidales”, le pentole della fraternità: le parrocchie riescono una volta alla settimana a distribuire un pasto caldo) e all’informazione a chi è avviato all’emigrazione dal Paese. Monsignor Gonzalez e monsignor Reyes sono infatti letteralmente “vescovi di frontiera”: Colombia e Brasile sono a un passo dalle loro diocesi. L’uno, a Guasdalito, è affacciato verso le alture andine; l’altro, a Puerto Ayacucho, si trova nell’area di transito verso il cuore dell’Amazzonia. Le frontiere sono poco controllate dal governo di Caracas e in compenso soggette a un pericoloso miscuglio di corruzione delle guardie, di influenza del narcotraffico, di infiltrazioni della guerriglia e di attività di mercato nero. E poi c’è l’impatto devastante sulle piccole comunità di confine, che devono assorbire in poche settimane l’arrivo di un numero esuberante di profughi senza risorse, fra i quali si nascondono profittatori e provocatori. Per questo esiste anche una cooperazione fra diocesi venezuelane e diocesi colombiane e brasiliane.

Durante la celebrazione eucaristica, nell’omelia, monsignor Reyes ha tratto spunto dal vangelo per rimarcare la necessità di “camminare con gli occhi e con le orecchie aperti, per essere sensibili al bisogno degli altri”.  Per questa ragione, la Chiesa venezuelana deve essere “vicina alla gente, noi vescovi dobbiamo essere vicini al popolo”, come ha chiesto anche papa Francesco nell’incontro in Vaticano. Quel che si può fare oggi, con le risorse limitate e i con i freni imposti all’azione sociale, è “consolare” la gente, quella che rimane e quella in fuga.

“In certi casi non possiamo fare nulla, la situazione scappa dalle nostre mani. Possiamo solo ‘metterci nelle scarpe degli altri’ e provare a condividere il dolore”.

Reyes ha anche messo in luce le responsabilità internazionali: «va smontata l’ipocrisia internazionale sul Venezuela – ha denunciato – perché il petrolio, l’oro e i minerali nel Paese ci sono, stanno ancora lì, non sono spariti. Ma ci sono nazioni disposte a comprarli a bassissimo costo. Bisogna smascherare il gioco politico internazionale che continua a dare sostegno al regime dittatoriale di Maduro».
Le due superpotenze che sostengono e finanziano Maduro sono  Russia e Cina: con quest’ultima il presidente pare aver stretto nelle ultime settimane diversi accordi economici.

«Io vedo alcuni possibili scenari per il futuro – ha concluso monsignor Reyes – Oltre alla rassegnazione del popolo, molti dicono che questo governo arriverà ad autodistruggersi; altri ancora che sarà necessario un intervento militare esterno; il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin aveva posto quattro condizioni al governo, ma sono state tutte disattese. Quello che doveva essere un dialogo tra Chiesa cattolica e governo in realtà è saltato, non c’è mai stato».

 

 

 

«Cicatrici di guerra. Matrici di pace», convegno sulla Colombia a Valdocco

«Cicatrici di guerra. Matrici di pace»
Giovedì 15 marzo 2018
ore 18 – Valdocco (Sala Sangalli)

Cinquantadue anni di conflitto hanno lasciato sul terreno oltre 260 mila morti, 45mila desaparecidos e 6,9 milioni di sfollati: è il bilancio della guerra civile tra Governo colombiano e le Fuerzas armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), conclusasi il 24 novembre 2016 con un accordo di pace ratificato a Bogotà il giorno 30 dello stesso mese. Del processo di pacificazione in corso si darà conto attraverso un particolare angolo visuale al convegno «Cicatrici di guerra. Matrici di pace» giovedì 15 marzo alle ore 18, a Valdocco, in via Maria Ausiliatrice 32 a Torino – Sala Sangalli (parcheggio auto: ingresso da piazza Sassari), organizzato da Missioni Don Bosco.

Interverranno don Rafael Bejarano, direttore di “Ciudad Don Bosco”, centro salesiano di recupero e di riabilitazione nella città di Medellin, Jazmín, ex- ragazza soldato delle Farc accompagnata da Jovana Ruíz, incaricata dell’inserimento lavorativo e dei tirocini, Bruno Desidera, giornalista di AgenSIR specializzato sulla Colombia e Alessia Andena, referente del progetto di Medellin per Missioni Don Bosco.

Presiederà l’incontro Giampietro Pettenon, Presidente di Missioni Don Bosco; modererà Elisabetta Gatto, antropologa di Missioni Don Bosco.

L’incontro è aperto al pubblico senza necessità di prenotazione, con la possibilità di avvalersi del servizio di baby sitting offerto dall’organizzazione.

Poiché si tratta dell’unica manifestazione pubblica della delegazione in Italia, il convegno sarà trasmesso in diretta streaming nel sito www.missionidonbosco.org.

Per prepararsi all’incontro si può vedere il documentario “Alto el fuego”, letteralmente “Cessate il fuoco”, è un documentario sul progetto di riabilitazione e reinserimento sociale dei bambini soldato delle Farc portato avanti dai salesiani della Colombia:

 

Vis e Missioni Don Bosco in Ghana con Presadiretta

La tratta dei bambini in Ghana è stato tra i temi principali della puntata di lunedì 20 Febbraio di Presadiretta, la trasmissione in prima serata di Rai Tre condotta dal giornalista Riccardo Iacona.

Durante l’inchiesta si denuncia l’attuale situazione nel Paese africano, dove centinaia di bambini vengono rubati alle famiglie più povere, finendo così nelle mani della tratta.

Iacona, in Ghana, ha intervistato diverse persone, tra cui autorità locali, soggetti delle forze dell’ordine e i Salesiani che, congiuntamente con Missioni Don Bosco e il VIS, affrontano questa situazione con il progetto “Stop Tratta” proprio per contrastare la migrazione irregolare.