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Intervista al Cardinale Zen, vescovo emerito di Hong Kong

Si riporta un interessante articolo pubblicato da La Repubblica domenica 29 settembre nella sezione Mondo a cura dall’inviato della rivista, Filippo Santelli, in merito all situazione dei giovani a Hong Kong secondo il Cardinal Zen.

L’intervista Il cardinale Zen “Calma ragazzi a Hong Kong battiamo nuove strade”

«È venuto il momento di parlare, perché a Hong Kong si rischia una tragedia. I giovani che protestano sono coraggiosi, generosi, ma la violenza può scappare di mano. Dobbiamo fermarci, unirci e rivedere la strategia, altrimenti il loro sarà un sacrificio inutile».

In questi lunghi mesi di protesta il cardinale Joseph Zen è rimasto in silenzio. Il vescovo emerito di Hong Kong, 87 anni, anticomunista militante, leader delle battaglie non violente per la democrazia in città, ha seguito l’evolversi delle manifestazioni in disparte. Parla ora, nel quinto anniversario degli “ombrelli”, perché ha paura che questo movimento possa fallire allo stesso modo, «alienandosi le persone». E perché martedì, 70 anni della fondazione della Repubblica popolare cinese, una festa che i ragazzi mascherati vogliono rovinare, sarà una giornata «pericolosissima». «Può morire qualcuno», dice, in italiano, in una saletta del grande complesso dei salesiani, l’ordine in cui è entrato dopo avere lasciato Shanghai nel 1948. Un anno prima del trionfo di Mao.

La protesta contro la legge sull’estradizione è diventata una battaglia contro il governo locale, contro la polizia, per la democrazia. Che cosa succede a Hong Kong?

«Quando la Cina ha rivoluto indietro Hong Kong tutti conoscevamo la natura del suo regime, così per farcelo accettare ha inventato una formula intelligente di autonomia, “un Paese, due sistemi”. Soltanto che piano piano il comunismo ha mostrato i denti, la voglia di controllo totale, oggi dei “due sistemi” è rimasto ben poco. Il suffragio universale promesso si è rivelato una democrazia con caratteristiche cinesi, falsa: un voto su candidati prescelti da Pechino».

Cinque anni fa Occupy Central, il movimento per la democrazia che lei sosteneva, non ha ottenuto nulla. Questo può essere diverso?

«Occupy, occupare, era solo l’ultima risorsa. Prima il movimento aveva discusso per un anno, producendo tre ipotesi di legge elettorale su cui si erano espresse 800mila persone. Quando Pechino ha rifiutato l’esito di quel voto gli studenti hanno messo fuori gioco gli iniziatori e tutto il campo democratico, assumendo la guida senza una strategia. Occupare le strade non è un piano, il governo li ha lasciati fare e il disordine creato ha fatto perdere loro l’appoggio della gente».

Hanno imparato: invece di occupare strade ora sono più aggressivi, più violenti.

«Vero. Il 12 giugno, mentre noi pacifici ci disperdevamo alla fine della marcia, i “coraggiosi” o “violenti” hanno avuto il merito di circondare il Consiglio legislativo e impedire l’approvazione della norma. Quella era una resistenza passiva, poi però l’aggressività è cresciuta, all’inizio verso le cose, ora qualcuno sembra prendere di mira anche i poliziotti».

I cittadini sono comunque dalla loro parte.

«La gente apprezza il loro coraggio di fronte a un governo che non ascolta e a poliziotti che agiscono come belve, esce dalle case in ciabatte per sostenerli. Il problema è che Carrie Lam non ha alcun potere. Ma se andiamo avanti così l’escalation continuerà e il rischio è che finisca come Occupy, che l’appoggio venga meno. Il popolo non vuole la violenza».

Manca una strategia?

«Non si può andare avanti, soltanto avanti, senza raccogliere nulla. Si sono già sacrificati in tanti, oltre mille arrestati, più di cento incriminati. Tutte queste sofferenze non sono giustificate. Dicono di non avere leader, di agire “come acqua”, ma la guerriglia funziona contro degli invasori, quando puoi nascondersi e attaccare a sorpresa. Invece qui siamo di fronte a un governo forte, mentre loro non hanno armi».

Ma anni di marce pacifiche che cosa hanno ottenuto?

«Non è vero che noi “vecchi” in passato non abbiamo ottenuto nulla, senza le nostre battaglie i giovani sarebbero già delle Guardie rosse. Certo, se i comunisti insistono con la loro stupidità, se non capiscono che “un Paese, due sistemi” è anche il bene della Cina, sarà comunque difficile. Ma con la violenza perdiamo più di quanto otteniamo. Se i giovani possono avanzare è perché dietro hanno due milioni di persone pacifiche, lo sanno loro e lo sa il governo. Quindi ora dobbiamo fermarci, unirci e rivedere il nostro metodo, cercare metodi di pressione non violenti e efficaci. Sarà una lunga battaglia, non la si può affrontare senza strategia».

Su Hong Kong il Vaticano tace. Teme di compromettere il disgelo con la Cina, dopo l’accordo per la nomina dei vescovi?

«Purtroppo nella Santa Sede ci sono delle forze che spingono in ogni modo per questa Ostpolitik, una politica che piace anche a Francesco. Con quell’accordo sbagliato hanno venduto la Chiesa clandestina. L’ultimo atto è del 28 giugno scorso, un documento che incoraggia i fedeli a entrare in quella ufficiale, una Chiesa scismatica. In cambio non hanno ottenuto niente, solo abbandonato chi aveva fede e bisogno di sostegno».

Ci sono pressioni sulla diocesi di Hong Kong perché non si schieri con la protesta?

«In qualche modo sì, non esplicite: mentre tutto il mondo guarda a Hong Kong, il Vaticano non dice nulla. La diocesi è tutta schierata con la Santa Sede, io sono la minoranza dell’opposizione».

Martedì si festeggiano i 70 anni della Repubblica popolare. La Cina ora è una superpotenza, i suoi cittadini vivono ogni giorno meglio. Sono successi del Partito comunista?

«I comunisti hanno rovinato la Cina, le persone e i valori: ora comandano la forza e i soldi, questo non è progresso. Papa Paolo VI ha detto che il vero progresso si ha quando si avanza tutti insieme, non solo in pochi, e quando progredisce tutto l’uomo, non solo la sua parte materiale. Inoltre se avesse la democrazia, oggi la Cina sarebbe più ricca dell’America, perché i cinesi sono laboriosi. Una Cina democratica non è impossibile».

Molti ragazzi di Hong Kong sognano l’indipendenza da Pechino. E lei?

«No. I ragazzi che vorrebbero l’indipendenza aumentano, ma sono pochi, sfruttati dal governo come spauracchio. Capisco questi giovani, sono nati qui, non gli interessa la Cina. Ma a me sì, io sono cinese. Adesso è in mano ai comunisti, ma la rivogliamo indietro».

Che cosa sarà di Hong Kong nel 2047?

«Io di certo non la vedrò, per il resto non credo si possano fare previsioni. So solo che tutti gli uomini meritano la democrazia».